Il mondo dell’advertising è affascinante. Quando si parla di
pubblicità la reazione generale è di vago fastidio, un senso di superiorità e
disappunto per essere stati interrotti durante la visione di un film o
disturbati durante l’attesa della metro. Eppure, non riusciamo a farne a meno.
La pubblicità è dappertutto. Anche attività un tempo estranee a certe dinamiche
ora ci sono dentro fino al collo. E così vediamo spot di macellerie, volantini
di studi legali e banner di cliniche per il congelamento degli ovuli.
Ogni cosa ha un mercato. E ogni mercato ha una sua forma di
pubblicizzazione.
Taffo insegna che anche un servizio di pompe funebri può
sfondare nel mondo della pubblicità.
Il marketing si fa sempre più complesso, e anche gli utenti
diventano più esigenti. Oggi non basta presentare il prodotto. Insieme al
prodotto devi vendere un’emozione. Una storia.
Devi vendere l’anima del marchio. Il cliente non deve solo
acquistare il prodotto. Deve sposare il brand.
Ed è in questo tentativo che si può trionfare o scivolare in
un epic fail.
Quest’ultimo è il caso della disastrosa campagna
pubblicitaria di Pandora.
L’avrete vista.
Le città sono state tappezzate di
manifesti con slogan a caratteri cubitali, che avrebbero dovuto, secondo gli
ideatori, suggerire agli uomini di fare regali realmente desiderati dalle
donne. Invece, chissà perché, le donne sono un tantino stufe di essere
riconosciute solo come elettrodomestici in carne ed ossa, la folla è insorta
sui social, e i manifesti prontamente ritirati.
Ma non voglio soffermarmi sulla
lunga querelle sul sessismo, che è già stata ampiamente sviscerata. Mettiamo per
un attimo da parte il contenuto e analizziamo la campagna da un punto di vista
strettamente comunicativo.
Questa pubblicità non funziona. È strutturata in modo
inefficace.
Denota insicurezza nel proprio prodotto. Anni e anni di
studi sul marketing ci hanno insegnato che se voglio vendere un prodotto o un
servizio lo devo valorizzare io per primo.
Confrontare il proprio prodotto con
oggetti che si ritengono poco desiderabili non dà luce all’oggetto stesso, ma
lo spegne.
Un po’ come una ragazza insicura, che per spiccare si circonda solo
di amiche bruttine e va in giro con una t-shirt con su scritto “io sono più figa
di loro”. Non ci fa una gran figura.
Se vuoi vendere un gioiello, paragonalo ad altri beni di
uguale pregio, e sottolinea perché dovrebbero scegliere il tuo brand.
La Ferrero
paragonava le sue merendine ad altre ugualmente buone ma meno nutrienti, o
ugualmente nutrienti ma meno buone. Mica ti diceva “bimbo, scegli la kinder delice invece della pasta e cavoli”. E grazie.
Qualcuno direbbe “ti piace
vincere facile” (Bon ci bon bon bon).
Quindi, sessismo a parte, è semplicemente una pubblicità che
non funziona.
Ma, non contenti, quelli di Pandora hanno fatto un altro
errore di comunicazione. Hanno emesso un comunicato di spiegazioni.
E che hanno detto?
Ci avete frainteso.
92 minuti di applausi. Chiunque abbia letto anche solo un
abstract di un qualunque libro di comunicazione lo sa che non si fa così.
Forza, ripetete con me: <<Quando c’è un’incomprensione con un
interlocutore, non devo dire “tu non hai capito”, ma “io non mi sono spiegato
bene”>>. Suvvia.
Come potrete immaginare, la folla è insorta di nuovo. Così,
con il poco tempo rimasto a disposizione, il team creativo ha sostituito i
vecchi manifesti con altri di un’ovvietà disarmante.
“Il regalo più bello è
quello donato con un sorriso”.
Sembra quando si è in 10 per trovare una frase
di auguri azzeccata per un compleanno, e alla fine, dopo che sono state
bocciate 72mila idee perché ogni volta qualcuno non è d’accordo, si scrive una
roba triste, da telegramma. Un “cento di questi giorni”, per dire.
Insomma, i nuovi manifesti sono talmente banali che non
possono far incazzare nessuno. Però, comunque poco efficaci.
E che c’entra il pandoro nel titolo? C’entra. Perché al
contrario Bauli ha realizzato un’ottima pubblicità.
Quest’anno Bauli, per la consueta campagna natalizia, ha
affidato l’incarico a Paolo Genovese, regista e sceneggiatore di “Tutta colpa
di Freud” e “Perfetti sconosciuti”, per citarne due. Non proprio l’ultimo
arrivato, ecco. E la qualità si vede.
Perché la pubblicità Bauli è ben fatta?
Perché è chiaro di che marchio si tratta, anche se
visivamente non è ingombrante.
Dopo anni, il jingle “A Natale puoi” si è
associato al marchio nel pensiero collettivo. Quindi, anche se tutti gli altri
elementi tradizionali degli spot Bauli sono stati eliminati, la musica è un
reminder immediato.
Perché racconta una storia.
Non trasmette l’ansia di vendere
il prodotto, ma lo utilizza come attore, insieme agli altri. Il pandoro diventa
parte del quotidiano. Un quotidiano che appartiene a tutti noi, perché parla di
relazioni, di conflitti e riconciliazioni. Dunque non presenta il pandoro come
elemento di gioia accessoria del Natale, bensì introduce il brand come qualcosa
di familiare, che accompagna tutti i momenti della vita, senza ostentazione di
allegria. Bauli, forte del fatto di essere un marchio storico e che quindi non
necessita di farsi conoscere, dice “Non voglio entrare in casa tua a venderti
qualcosa. Semplicemente già ci sono. Da anni. Ricordatelo.”
Infine, perché crea partecipazione emotiva.
Lo spettatore,
che lo voglia o no, sviluppa un’opinione. Si schiera. Persino quelli che non
hanno compreso a fondo la narrazione, quelli che si sono fermati ad una lettura
di ciò che accade e non sono andati oltre (per capirci, quelli che pensano che
le due sorelle veramente stiano a litigare per una fetta di pandoro), si sono
schierati emotivamente, dando ragione all’una o all’altra. E la comunicazione,
per essere efficace, deve passare tramite le emozioni.
E a voi quale pubblicità è piaciuta questo Natale? Quale
avete trovato più efficace?
Nessun commento:
Posta un commento